Percorrendo a ritroso il cammino dell'Uomo (fino ad oggi), inciampiamo costantemente nell'enigma della perfezione. Tanti i pensatori che si sono spremuti le meningi nella sua definizione ed eventuale ricerca. Dall'arte alla religione, dalla letteratura alla legge, in pratica ogni ambito della nostra civiltà è attraversato da un'idea, storicamente mutevole, di perfezione, estetica, tecnica, morale, terrena, trascendente.
The perfectibility of man (1970), di John Passmore, sorvola ed ispeziona una ad una le forme di questo concetto, con gli strumenti dello storico della filosofia. L'autore, poco valorizzato in Italia, è qui conosciuto per lo più per l'unica sua opera che mi risulti esser stata tradotta in italiano, La nostra responsabilità per la natura (Man's responsibility for nature, 1974), pubblicato da Feltrinelli nel '91.
Il libro si divide in due parti; non aspettatevi, comunque, una divisione in qualunque maniera resa esplicita o evidente: semplicemente, una parte sfuma nell'altra con una virata netta ma dolce. Ad ogni modo, il "primo tempo" è composto dai capitoli dall'uno al tredici, e passa in rassegna il tema della perfezione umana nella cultura greca e in quella cristiana, e poi ancora del perfezionamento tramite l'azione sociale, il progresso scientifico e lo sviluppo naturale.
Il tredicesimo capitolo ha un titolo assai emblematico - Perfection renounced: the dystopians. Con esso si gettano le radici del "secondo tempo", costituito dagli ultimi due capitoli, in cui Passmore illustra la sua filosofia sulla perfettibilità e, come vedremo, sul concetto di umanità (traduco dall'inglese humanity, non quindi mankind).
La comprensione del pensiero dell'autore, però, necessita di una seppur minima conoscenza della storia della filosofia occidentale. Proprio a tale necessità risponde il lungo primo tempo, che per questo ricorda molto in struttura e trattazione le bellissime antologie usate durante le superiori. Il mio suggerimento - ovviamente - sarebbe quello di leggersi il libro, ma se proprio non potete (o non volete) proverò a darvi gli strumenti affinché possiate fingere di averlo fatto.
To set out to imitate the gods was to exhibit hubris, to be arrogant, to get above oneself. «Do not try to become Zeus», the poet Pindar exhorted his readers. For, he continues, «mortal things suit mortal best». In so far as men should guide their actions by models, it is the heroes, not the gods, on whom they should model themselves. If the heroes are perfect, however, it is only as exemplars of how to confront a particular situation.
Ai tempi di Pindaro (siamo a cavallo fra il VI e il V secolo a.C.) l'imitazione degli dei era non solo discutibile, ma denotava arroganza, poiché era considerata un atto di sfida nei confronti degli stessi. Se gli uomini hanno bisogno di modelli, questi sono rappresentati dagli eroi, le cui gesta sono perfette non in assoluto ma relativamente a particolari situazioni. (Oggi si direbbe che la perfezione degli eroi greci è «problem oriented».) D'altra parte, neanche le azioni degli dei greci sono perfette; su questo, il filosofo Senòfane, contemporaneo del poeta Pindaro, avrà da biasimare che «Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dei tutto quello che per gli uomini è oggetto di vergogna e di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi...». All'uomo non è dato perfezionarsi nemmeno attraverso l'obbedienza cieca a questi esseri capricciosi e sempre alle prese con dissapori e faide familiari.
Un tentativo di moralizzare la religione tradizionale si ebbe, ad esempio, per opera di Eschilo, ma si rivelò infruttuoso. (Sebbene, puntualizza Passmore «its general effect was to make Zeus a figure more readily assimilable to, or replaceable by, Jahweh», il quale «made no pretence to metaphysical perfection, but he is depicted as being a righteous as well as an all-powerful God».) Maggiore "fortuna" ebbe il differente concetto del divino espresso da Parmenide - per parlare solo dei filosofi presocratici. In breve, molte delle idee emerse in questo fecondo periodo storico confluirono nella, o contribuirono alla, cultura delle prime comunità cristiane, influenzando direttamente il concetto di perfettibilità umana. Ma qual è, insomma, il lascito dei Greci?
A questo punto, e grossomodo fino al secolo dei lumi, la storia della ricerca della perfezione si intreccia alla storia della diffusione e dello sviluppo intellettuale del Cristianesimo, allineandosi con risultati diversi alle correnti più o meno eretiche e scismatiche nate in seno alla Chiesa. Passmore riassume la storia (intellettuale) della Cristianità come «long controversy in which Christians have swung between the extremes of Pelagianism and the extremes of dual predestination.» Vale a dire, una lunga contesa il cui oggetto era, da un lato, la possibilità dell'Uomo di divenire perfetto sulla base delle sue sole azioni (i.e. arrivare a Dio senza bisogno di Fede né di Grazia), o, dall'altro lato, la salvezza finale (perfezione ultraterrena?) per effetto esclusivo della Grazia di Dio, svincolata da qualsivoglia azione umana - il Calvinismo; Martin Lutero, addirittura, nega l'esistenza del libero arbitrio.
Ma le cose cambiano. Quella che si ha con l'Illuminismo è, di fatto, una rottura, sia pur graduale, con lo spettro di alternative cristiano; la riscoperta della materia dell'Uomo è una trama inedita sulla quale vengono tessuti i nuovi concetti di perfezione umana. Il pensatore anarchico William Godwin nega l'idea "classica" di perfettibilità come assurda e contradditoria.
Un cenno all'idea di perfezionamento perpetuo l'abbiamo già fatto in precedenza, ragionando sul tema del consumismo. Ciò che ci interessa sapere ai fini del nostro obiettivo - capire la filosofia di John Passmore - è che la pretesa possibilità del perfezionamento umano apre la strada alle utopie; o, per meglio dire, la riapre. (Si pensi, solo per fare due esempi appartenenti al passato, alla Repubblica di Platone e alla Città del Sole di Tommaso Campanella.) Utopie di rilievo politico, che identificano come motore dello sviluppo umano di volta in volta una rivoluzione sociale, l'avanzamento tecnologico o l'eugenetica.
Nel XX secolo - quanto meno nella sua prima metà - saranno due le utopie ad essere trasposte dalla mappa al territorio, nella forma dell'ideologia nazista e del comunismo di stampo sovietico, in cui si riflettono, rispettivamente, il concetto di perfezionamento dell'Uomo attraverso l'eugenetica - ma non solo - e quello della conquista del "Paradiso in Terra" per mezzo della rivolta di classe. (È da notarsi, comunque, che le diverse utopie, tanto più nei loro risvolti concreti, non sono divise in compartimenti stagni. Si pensi solo che anche il Nazismo inseguiva il suo proprio paradiso terrestre - il Lebensraum o spazio vitale.)
Ma passiamo oltre, per approdare finalmente al tredicesimo capitolo di The perfectibility of man, lo spartiacque tra il primo e il secondo tempo, in cui inizia la trattazione vera e propria del pensiero dell'autore. Come già detto, il tema cardine è costituito dalle distopie. Queste sono, essenzialmente, utopie osservate con gli occhi sbarrati, sezionate con orrore, scenari futuri "drogati" con la tecnologia. «Modern dystopias» spiega Passmore «criticize existing societies by constructing a nightmare society which [...] is the inevitable outcome of existing tendencies.»
Molto importante è una citazione che Passmore fa di Alexis de Tocqueville a proposito della società utopica/distopica del futuro: «It will be» dice de Tocqueville «a society which tries to keep its citizens in "perpetual childhood"; it will seek to preserve their happiness but it chooses to be the sole agent and the only arbiter of that happiness». Due sono, qui, le parole chiave: perpetual childhood (infanzia perpetua) e happiness (felicità). A proposito di quest'ultima, Passmore fa sue le considerazioni di Erich Fromm.
Ormai è chiaro che la ricerca della perfezione (individuale e sociale) coincide in effetti con la ricerca della (perfetta) felicità; ma fintanto che questa felicità è definita in termini utilitaristici (cioè come massimizzazione del piacere e minimizzazione del dolore), la società che ne emerge risulta, quanto meno in tendenza, illiberale. Del resto, stando alle teorie di Sigmund Freud, che Passmore dimostra di condividere almeno in parte, secondo cui la civiltà esige inibizioni.
La felicità intesa in modo utilitaristico è quella che Passmore ritiene essere generata dal «simple enjoyment», tipico dei bambini - ricordate la perpetual childhood? - mentre quella intesa mutuando la filosofia di Freud e quella di Fromm è quella generata dall'amore. Ma com'è definito questo sentimento in Passmore?
Il nesso coi bambini è posto in maniera ancor più evidente poche pagine dopo, quando l'autore afferma, lapidario: «to learn to love is at the same time to learn no longer to be a child.» Il che sta a dire che amare significa aggiungere al godimento puro e semplice (di per sé egoistico) la cura o attenzione per le persone e le cose oggetto della nostra affezione. «To love» chiarisce il filosofo «is to take delight in the continuing existence of an object, to find it beautiful, to rejoice in its qualities and structure, and - when this lies within our power - to help it to survive and to develop.»
Ovviamente, nulla dura per sempre. Tutto è impermanenza: le cose si rompono, le persone muoiono. Ma questo, per Passmore - al contrario di quelli che lui etichetta come "mistici" - non è un valido motivo per amarle di meno, fintanto che possiamo goderne, realizzando al contempo le nostre potenzialità. Ma l'analisi di Passmore non si limita a confutare l'odio per le cose mondane sulla base della loro caducità. Il messaggio è indirizzato non solo ai singoli individui, ma alla collettività. Infatti, per il pensatore, «the quality of a society depends on the quality of the loves it exhibit and fosters». Un messaggio attualissimo, se si pensa che Passmore apostrofa la società in cui vive dichiarando che «ideas like "economic growth" and a "higher standard of living,"used to justify more and more toil, have become absurd fetishes.» Queste idee - è forse questa la morale di The perfectibility of man - rispondono davvero e ancora al bisogno che abbiamo di liberare il nostro potenziale?
It is not surprising, then, that one can discern in sixth-century Greece a growing dissatisfaction with the Olympian religion - related perhaps to a fundamental change in the nature of Greek society, the decline of heroic age. Men were no longer content with the typically military view that it is men's task to do or die, to endure or fight, not to question or undestand. Their dissatisfaction might, in principle, have taken either of two forms: a moralizing of the traditional religion, which, while preserving the humanity of the gods, would more strongly emphasize that they, and especially Zeus, are on the side of goodness, or, alternatively, a rejection of the Olympian pantheon in favour of some different conception of the divine.
Un tentativo di moralizzare la religione tradizionale si ebbe, ad esempio, per opera di Eschilo, ma si rivelò infruttuoso. (Sebbene, puntualizza Passmore «its general effect was to make Zeus a figure more readily assimilable to, or replaceable by, Jahweh», il quale «made no pretence to metaphysical perfection, but he is depicted as being a righteous as well as an all-powerful God».) Maggiore "fortuna" ebbe il differente concetto del divino espresso da Parmenide - per parlare solo dei filosofi presocratici. In breve, molte delle idee emerse in questo fecondo periodo storico confluirono nella, o contribuirono alla, cultura delle prime comunità cristiane, influenzando direttamente il concetto di perfettibilità umana. Ma qual è, insomma, il lascito dei Greci?
First and foremost the establishment of the idea of metaphysical perfection, and the ascription of that perfection to a Supreme Being, whether the Being was distinguished from or identified with Nature. Secondly, the view that human beings, or some human beings, could share, even if in a modified form, the metaphysical perfections of the Supreme Being - all his perfections except those which define his supremacy, such as his all-embracingness.
A questo punto, e grossomodo fino al secolo dei lumi, la storia della ricerca della perfezione si intreccia alla storia della diffusione e dello sviluppo intellettuale del Cristianesimo, allineandosi con risultati diversi alle correnti più o meno eretiche e scismatiche nate in seno alla Chiesa. Passmore riassume la storia (intellettuale) della Cristianità come «long controversy in which Christians have swung between the extremes of Pelagianism and the extremes of dual predestination.» Vale a dire, una lunga contesa il cui oggetto era, da un lato, la possibilità dell'Uomo di divenire perfetto sulla base delle sue sole azioni (i.e. arrivare a Dio senza bisogno di Fede né di Grazia), o, dall'altro lato, la salvezza finale (perfezione ultraterrena?) per effetto esclusivo della Grazia di Dio, svincolata da qualsivoglia azione umana - il Calvinismo; Martin Lutero, addirittura, nega l'esistenza del libero arbitrio.
Ma le cose cambiano. Quella che si ha con l'Illuminismo è, di fatto, una rottura, sia pur graduale, con lo spettro di alternative cristiano; la riscoperta della materia dell'Uomo è una trama inedita sulla quale vengono tessuti i nuovi concetti di perfezione umana. Il pensatore anarchico William Godwin nega l'idea "classica" di perfettibilità come assurda e contradditoria.
What happened, indeed, is that the idea of perfectibility came to be entirely divorced from the idea of absolute perfection. In the 1796 edition of Political Justice Godwin could write: «By perfectible... is not meant... capable of being brought to perfection. But the word seems sufficiently adapted to express the faculty of being continually made better and receiving perpetual improvement.» And he continues thus: «The term perfectible, thus explained, not only does not imply the capacity of being brought to perfection, but stands in express opposition to it. If we could arrive at perfection, there would be an end to our improvement.»
Un cenno all'idea di perfezionamento perpetuo l'abbiamo già fatto in precedenza, ragionando sul tema del consumismo. Ciò che ci interessa sapere ai fini del nostro obiettivo - capire la filosofia di John Passmore - è che la pretesa possibilità del perfezionamento umano apre la strada alle utopie; o, per meglio dire, la riapre. (Si pensi, solo per fare due esempi appartenenti al passato, alla Repubblica di Platone e alla Città del Sole di Tommaso Campanella.) Utopie di rilievo politico, che identificano come motore dello sviluppo umano di volta in volta una rivoluzione sociale, l'avanzamento tecnologico o l'eugenetica.
Nel XX secolo - quanto meno nella sua prima metà - saranno due le utopie ad essere trasposte dalla mappa al territorio, nella forma dell'ideologia nazista e del comunismo di stampo sovietico, in cui si riflettono, rispettivamente, il concetto di perfezionamento dell'Uomo attraverso l'eugenetica - ma non solo - e quello della conquista del "Paradiso in Terra" per mezzo della rivolta di classe. (È da notarsi, comunque, che le diverse utopie, tanto più nei loro risvolti concreti, non sono divise in compartimenti stagni. Si pensi solo che anche il Nazismo inseguiva il suo proprio paradiso terrestre - il Lebensraum o spazio vitale.)
Ma passiamo oltre, per approdare finalmente al tredicesimo capitolo di The perfectibility of man, lo spartiacque tra il primo e il secondo tempo, in cui inizia la trattazione vera e propria del pensiero dell'autore. Come già detto, il tema cardine è costituito dalle distopie. Queste sono, essenzialmente, utopie osservate con gli occhi sbarrati, sezionate con orrore, scenari futuri "drogati" con la tecnologia. «Modern dystopias» spiega Passmore «criticize existing societies by constructing a nightmare society which [...] is the inevitable outcome of existing tendencies.»
Molto importante è una citazione che Passmore fa di Alexis de Tocqueville a proposito della società utopica/distopica del futuro: «It will be» dice de Tocqueville «a society which tries to keep its citizens in "perpetual childhood"; it will seek to preserve their happiness but it chooses to be the sole agent and the only arbiter of that happiness». Due sono, qui, le parole chiave: perpetual childhood (infanzia perpetua) e happiness (felicità). A proposito di quest'ultima, Passmore fa sue le considerazioni di Erich Fromm.
The dystopian criticism, it might therefore be argue - as Erich Fromm, for one, argues - has nothing to do with happiness, rightly understood. No doubt, the dystopias offer men freedom from suffering and the immediate gratification of impulses but this, according to Fromm, is not happiness. Drugs like soma can bring with them placid content, but happiness is very different from contentment. Man can be happy, Fromm somewhat portentously observes, only when he «has found the answer to the problem of human existence: the productive realization of his potentialities.» On this view, there can be no clash between freedom and happiness: freedom is a necessary condition for happiness [...]
Ormai è chiaro che la ricerca della perfezione (individuale e sociale) coincide in effetti con la ricerca della (perfetta) felicità; ma fintanto che questa felicità è definita in termini utilitaristici (cioè come massimizzazione del piacere e minimizzazione del dolore), la società che ne emerge risulta, quanto meno in tendenza, illiberale. Del resto, stando alle teorie di Sigmund Freud, che Passmore dimostra di condividere almeno in parte, secondo cui la civiltà esige inibizioni.
La felicità intesa in modo utilitaristico è quella che Passmore ritiene essere generata dal «simple enjoyment», tipico dei bambini - ricordate la perpetual childhood? - mentre quella intesa mutuando la filosofia di Freud e quella di Fromm è quella generata dall'amore. Ma com'è definito questo sentimento in Passmore?
«He that hath wife and children,» as Bacon tells us, «hath given hostages to fortune». More generally, he who loves anything at all - persons, places, activities - has «given hostages to fortune». That is a principal point of difference between love and simple enjoyment. Enjoyment, as such, gives no hostages. To love is to care about, to care for, to take care of; to enjoy is to delight in what is immediately present. A love devoid of enjoyment is not love at all, it is what Cudworth called «slavish imposition», duty masquerading as love. But a love devoid of care, equally, is simple enjoyment pretending to be love.
Il nesso coi bambini è posto in maniera ancor più evidente poche pagine dopo, quando l'autore afferma, lapidario: «to learn to love is at the same time to learn no longer to be a child.» Il che sta a dire che amare significa aggiungere al godimento puro e semplice (di per sé egoistico) la cura o attenzione per le persone e le cose oggetto della nostra affezione. «To love» chiarisce il filosofo «is to take delight in the continuing existence of an object, to find it beautiful, to rejoice in its qualities and structure, and - when this lies within our power - to help it to survive and to develop.»
Ovviamente, nulla dura per sempre. Tutto è impermanenza: le cose si rompono, le persone muoiono. Ma questo, per Passmore - al contrario di quelli che lui etichetta come "mistici" - non è un valido motivo per amarle di meno, fintanto che possiamo goderne, realizzando al contempo le nostre potenzialità. Ma l'analisi di Passmore non si limita a confutare l'odio per le cose mondane sulla base della loro caducità. Il messaggio è indirizzato non solo ai singoli individui, ma alla collettività. Infatti, per il pensatore, «the quality of a society depends on the quality of the loves it exhibit and fosters». Un messaggio attualissimo, se si pensa che Passmore apostrofa la società in cui vive dichiarando che «ideas like "economic growth" and a "higher standard of living,"used to justify more and more toil, have become absurd fetishes.» Queste idee - è forse questa la morale di The perfectibility of man - rispondono davvero e ancora al bisogno che abbiamo di liberare il nostro potenziale?
Nessun commento:
Posta un commento