Per comporre questa guida minima ho tratto considerevole spunto dal libro "E qui casca l'asino - Errori di ragionamento nel dibattito pubblico", di Paola Cantù, ed. Bollati Boringhieri, 2011. L’aspetto curioso degli errori argomentativi - o, per meglio dire, delle “fallacie” - che vi andrò ad elencare, è che spesso aumentano l’effetto persuasivo di un’affermazione anziché diminuirlo. Nessun paradosso: il motivo per cui ciò accade è che la gente quasi sempre casca in queste vere e proprie trappole logiche, e ci casca, ovviamente, perché non sa riconoscerle quando se le ritrova davanti. Con questo articolo proverò, quindi, ad insegnarvi ad aguzzare la vista di fronte a fallacie assai frequenti nel dibattito pubblico. Che si parli di politici, giornalisti, blogger o ex comici.
1. Adagiarsi sugli allori (degli antichi). I teorici dell’argomentazione la chiamano in gergo «fallacia ad antiquitatem»; io la chiamo GHRS, Grandma’s Home Remedy Syndrome (cioè Sindrome del Rimedio della Nonna), perché è l’errore tipico di chi, in assenza di ulteriori argomentazioni, si convince che ciò che la tradizione trasmette sia sempre valido, a prescindere dalle circostanze, che nel frattempo potrebbero essere cambiate radicalmente: in automatico, “tradizionale” vuol dire “buono e giusto”. Anzi, a dirla tutta, significa proprio “migliore”. Quanti rimedi della nonna si usano in politica? E in quanti casi l’efficacia prevale sul saporaccio del misterioso intruglio che mandiamo giù turandoci il naso?
2. Attaccare la persona. Ve ne faccio una facile: Renato Brunetta. Quante volte vi sarà successo di sfotterlo facendo leva sul fatto che è alto un metro e ho-tanta-voglia-di-crescere (per dirla in maniera simpatica)? Qualcuno, magari, avrà anche detto che Brunetta è un nano, e che quindi «è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo vicino al buco del culo». Ma tale frase, che all’interno di una canzone di Fabrizio De André diventa poesia, inserita nel dibattito politico è una bruttura che prende il nome di “fallacia ad hominem”. Un errore talmente diffuso e rassicurante da essere entrato nel linguaggio (pregiudizievole) di numerosi giornalisti e blogger in modo pressoché permanente. La ragione per cui confutare una tesi passando per l’attacco della persona che la espone è considerato argomento fallace è lapalissiana. Giovanni Falcone disse una volta:
Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.
È la stessa cosa che sostiene un personaggio (purtroppo) decisamente più di moda, quando dice:
L’uomo può essere catturato, può essere ucciso e dimenticato. Ma 400 anni dopo ancora una volta un’idea può cambiare il mondo.
Ma se la citazione tratta da V per Vendetta si applica alle idee che riteniamo buone, non si capisce perché non si potrebbe applicare anche alle idee che riteniamo cattive. Ci rendiamo conto, allora, che gli attacchi personali non soltanto sono brutti, ma sono anche abbastanza inutili. Per chi li lancia, ma non per chi li subisce: del resto, come disse anche Montaigne, «chi fonda il suo argomento su toni minacciosi e perentori mostra di avere ben deboli ragioni».
3. Fare appello alle emozioni. Le parole alate che ho finora proferito non hanno forse scalfito la vostra corazza e intenerito il vostro cuore? Beh, dovrebbero, se un cuore l’avete. Ma se ne siete sprovvisti, allora non c’è speranza alcuna né che il vostro animo divenga dolce, né che la vostra cervice si ammorbidisca. Ma guai a voi, semmai aveste un cuore, sì, ma troppo piccolo e rattrappito per ospitare il calore del mio messaggio! Guai a voi, perché un giorno, se non farete tesoro di quanto oggi vi sto dicendo, perderete quanto avete di più caro, e la colpa sarà solo vostra! Gli extraterrestri verranno clandestinamente a rubarvi il lavoro, vi imporranno la loro ideologia multiversalista con la seduzione del mistero, si faranno amare più di voi dai vostri animali domestici e banchetteranno con i vostri deliziosi iPhone! Ecco un esempio di appello alle emozioni. Un po’ fantasioso, ma non troppo dissimile dagli esempi che potreste trovare in giro per la rete o sfogliando libri e giornali. Paura, eh?
4. «Così fan tutte!». Quella “ad verecundiam” è una fallacia assai subdola e per questo estremamente incisiva, e talvolta in un faccia a faccia determina la vittoria netta o la sconfitta senza appello. In relazione alle altre argomentazioni fornite, in vero, tale elemento può essere fallace oppure no. Lo diventa quando la tesi si regge solo o principalmente su di esso. Il WT2A, Women Together to the Toilet Algorythm (Algoritmo delle Donne alla Toilette Insieme), è uno schema ricorrente, ad esempio, quando si confronta l’Italia con altri Paesi. Una frase in voga è la seguente:
in tutti i Paesi civilizzati/occidentali/democratici/europei si fa A, noi facciamo B
spesso pronunciata anche una sua variante, più negativa:
noi facciamo B, proprio come in quel Paese incivile/autocratico, ecc.
Questa fallacia ha tanto maggiore capacità persuasiva quanto più è forte il senso di vergogna, isolamento e alienazione che si riesce a trasmettere all’uditore riguardo alla differenza che si solleva. Il problema, qui, è che, se è vero che un’affermazione non diventa più vera a furia di ripeterla infinite volte, è vero anche che una scelta non diventa l’unica soluzione giusta per il solo fatto di essere condivisa da tutti gli altri. È un po’ come quando il bambino chiede insistentemente ai genitori di comprargli un nuovo giocattolo che a scuola hanno già tutti i suoi compagni, e i genitori gli rispondono con un assurdo tipo «se i tuoi amici si buttassero dal ponte di Brooklyn, li seguiresti?».
5. Stereotipi a palla. Secondo Paola Cantù, esperta studiosa delle teorie dell’argomentazione e autrice, lo stereotipo «è una concezione convenzionale ed eccessivamente semplificata di una cosa (per esempio un gruppo di persone) spesso basata su una correlazione illusoria o su forme di linguaggio pregiudizievole». Ci è mai capitato di esagerare con le generalizzazioni, magari affibbiando un’etichetta forzata ad una data categoria socio-politica o etno-culturale? Il bello degli stereotipi e delle regole generali che essi suggeriscono è uno: basta un singolo caso che devia dalla regola perché l’intero teorema ne risulti compromesso. Un bel vantaggio, no?
6. Occhio per occhio, tesi perdente. Cosa fare quando ci accorgiamo che il nostro interlocutore sta ricorrendo ad una fallacia? Forse, il vostro primo istinto sarebbe quello di ripagarlo con la sua stessa moneta, ma sappiate che qualunque teorico dell’argomentazione vi dirà che in un dibattito la legge del taglione non è contemplata. Se qualcuno non ha altri argomenti se non quelli che prevedono l’attacco personale, non insultatelo a vostra volta, ma fate una cosa più semplice: senza fare cadute di stile, sfoderate tutta la logica di cui disponete. Potreste farci la figura dei radical chic, ma vi garantisco che questo sistema è molto stimolante e che il divertimento è assicurato. E poi, se il vostro “aggressore” si dimostra abbastanza ottuso, avrete guadagnato l’ammirazione degli eventuali spettatori o al più qualche buon aneddoto linguistico con cui intrattenere i vostri amici più colti. Uno spasso altrimenti impagabile.
7. Teorizzare complotti. Definire cos’è un complotto può rivelarsi un procedimento più ostico di quanto non si creda. In generale, possiamo essere d’accordo su una caratteristica di base: il complotto nasce come un evento coperto da segreto. È bene dire che le “ipotesi” di complotto sono molto diverse dalle “teorie” del complotto, poiché le prime non sono altro che supposizioni in attesa di elementi provanti, possibili interpretazioni di una situazione incerta, se vogliamo, mentre le seconde sono sostenute con maggiore foga. Si suol dire che eventi straordinari necessitano di prove straordinarie, e qui sta il punto debole delle teorie del complotto. Un errore comune è infatti quello di identificare come prova la mancanza di prove: il complotto è talmente ben orchestrato che tutto viene puntualmente insabbiato alla perfezione. Un ragionamento di questo tipo può essere passabile quando si elaborano delle mere ipotesi, ma non lo è per niente quando arriva il momento di confrontarsi con la realtà.
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